ROVIGO – Monta la curiosità per la singolare figura di Giovanni Miani, l’esploratore a cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo ha deciso di dedicare la prossima mostra di Palazzo Roncale (“Giovanni Miani. Il Leone Bianco del Nilo”, dal 12 marzo al 26 giugno 2022, a cura di Mauro Varotto, da un progetto di Sergio Campagnolo).
La vicenda di Miani appassiona gli storici ma è praticamente ignota al grande pubblico. E questa mostra vuole far conoscere Miani anche a chi, passando per Largo Libertà a Rovigo, lo vede raffigurato da Virgilio Milani in una grande statua, senza sapere cosa quel personaggio barbuto abbia fatto per meritarsela proprio a Rovigo.
Il perché a Rovigo è semplice. Giovanni Miani nacque qui e qui trascorse 14 anni da “bastardo”, tanti da segnargli per sempre la vita.
Quelli rodigini di Giovanni Miani, il “bastardo” appunto, non pare siano davvero stati tempi facili. Il futuro esploratore del Nilo era figlio naturale di Maddalena Miani, merciaia, forse serva, che viveva nella parrocchia del Duomo. Qui Giovanni era venuto alla luce il 17 marzo del 1810: un evento che non fu per nulla lieto.
Senza un padre, il bambino si ritrovò presto anche senza la madre, tornata a servizio del patrizio Pier Alvise Bragadin nel palazzo veneziano del nobiluomo.
Abbandonato a Rovigo, Giovanni era un peso per tutti e tale si sentiva, ospitato per pura pietà cristiana da parenti che avevano altre bocche da sfamare e che vedevano in questo ragazzo “selvatico” solo un problema in più. Malvisto, male sopportato, il “bastardo”, come lui stesso si definiva, crebbe per strada. Fu un bambino e un ragazzo drammaticamente sofferente e triste, un “disadattato” si direbbe oggi, aggressivo, violento, abbandonato a sé stesso e infelice. Un problema per tutti e soprattutto per i parenti che se lo ritrovarono per casa.
Va detto che sarebbe fuor di luogo giudicare le situazioni sociali di quel tempo con gli occhi e la sensibilità dell’oggi. Certo Giovanni visse anni duri, ma forse non troppo dissimili da quelli vissuti da tanti altri ragazzi del tempo.
Tanto che la madre si rivolse per un aiuto al Nobiluomo Bragadin, ben sapendo che quel “bastardo” un padre ovviamente lo aveva e che costui era proprio il patrizio veneziano. Pur senza ufficialmente riconoscerlo, Bragadin accettò di farsi carico di questo figlio non voluto. Così, dall’oggi al domani, il bastardo diventa “el paronsin”, il padroncino, entrando a far parte, anche senza alcuna investitura ufficiale, di una famiglia che aveva fatto la storia di Venezia. Tra gli avi, anche quel Doge Marcantonio Bragadin che era stato l’eroe di Famagosta, quando correva l’anno 1571 e Venezia si misurava con i Turchi. E chissà se il giovane Miani ha avvertito l’esigenza di andare a rendere omaggio alla pelle scuoiata di cotanto antenato, venerata nella chiesa di San Giovanni e Paolo.
Vivere in Palazzo, come “paronsin”, presentava enormi vantaggi ma l’esperienza di abbandoni, miseria, difficoltà anche psicologiche che Giovanni si trascinava sulle spalle rappresentavano un peso fortissimo. Il ragazzo di strada mal si adattava alle lunghe ore di studio, alle ferree regole di casa, al sentirsi sopportato più che amato, com’era avvenuto per tutta la sua precedente vita. La solitudine era la stessa che provava a Rovigo perché anche a Venezia il suo carattere e la sua posizione non del tutto regolare in Casa Bragadin lo relegavano ai margini. L’affetto della madre era importante ma non gli poteva bastare. Sentendosi nessuno, voleva diventare, ad ogni costo, qualcuno di importante, un uomo che il mondo ammirasse invece che disprezzare o al meglio sopportare. E alla realizzazione di quel sogno di adolescente infelice, Giovanni dedicò tutta la vita.